giovedì 30 aprile 2020

Ricerca del Tempo nel tempo





P   R   I   M   A
   

Tutto corre e niente invecchia; c'è la possibilità di fare tutto e non c'è il tempo di fermarsi su niente; non c’è nessuna distanza, ma non si apprezza realmente la vicinanza.

I giovani corrono senza fermarsi e gli anziani (che non invecchiano) ricordano con una certa nostalgia i tempi in cui ogni tanto ci si fermava. 

I giovani hanno tutto a portata di mano (o meglio di ‘click’); volano con aerei in paesi lontani, fanno arrivare merci dall'altra parte del mondo e possono avere amici in tutto il globo vedendoli ogni giorno dentro uno schermo.

Gli anziani li guardano, cercando di non invecchiare anche loro e riuscendo, in effetti, a non sentire più di tanto i limiti del corpo. Mantengono, però, una certa perplessità davanti alle corse sfrenate e ai viaggi nel mondo. Preferiscono passeggiare nei sentieri e nei boschi di sempre che, nonostante la loro apparente monotonia, nascondono sempre nuove, infinite ricchezze e bellezze.

Cercano il dialogo con gli inarrestabili ragazzi che ogni tanto si fermano, ma gli anziani proprio non riescono a capire, o forse a volte non vogliono capire. Da parte loro, i giovani si stancano velocemente delle incomprensioni.

Devono ripartire subito, non possono stare fermi. Devono salvare il mondo; ogni giorno. Tenendo il globo intero in una mano a portata di click, si sentono responsabili verso tutti e verso tutto. 
                                 
Ma, senza rendersene conto, non verso se stessi !




D    O    P    O


Ma il click da solo non basta più, ahimè, con il virus che è arrivato aggressivo e implacabile. I giovani e gli anziani si sono ritrovati ora, improvvisamente, tutti insieme, gli uni accanto agli altri.

Rinchiusi negli stessi limiti e confini, limitati nei loro corpi e nelle loro nature, impotenti di fronte all'inarrestabile natura.

Si sono ritrovati vicini, nella quiete più assoluta, nel la vicinanza più silenziosa, ma senza potersi né toccare né sfiorare. I giovani ora si son fermati; gli anziani sono improvvisamente invecchiati, consapevoli delle effimere promesse di una giovinezza eterna. 

Ora tutti devono trattenersi, senza distinzioni, considerando con rispetto le reali fragilità di tutti, per salvare gli altri e sé stessi. 

Tutto si ferma e la quiete del mondo impone un chiasso assordante di noia e incertezza.

Gli uomini, e in particolar modo i giovani, timidamente si avvicinano a questa quiete senza sapere come affrontarla. 

Tra quattro mura si provano e si scoprono creatività inaspettate: suonare uno strumento, preparare il pane in casa, costruire mondi leggendo libri, scoprire universi nella vicinanza con i propri familiari. 

Eppure, la fantasia non si accontenta di queste quattro mura. Guardando fuori e vedendo parchi e boschi in lontananza sente una nostalgia strana. Una malinconia sconosciuta, per una natura che in realtà non si è mai conosciuta. 

Ma c’è chi possiede questa conoscenza: sono soprattutto i vecchi saggi naturali, che hanno goduto di una natura ricca e generosa, prodiga e sapiente, che ha saputo quando e come fermarci. 

Questi saggi anziani ci possono insegnare ad ascoltare  e a riscoprire questa natura; che aspetta lì fuori, ferma ma trepidante. Da questa quiete imposta dal virus, quindi, si potrebbe imparare a sostare più a lungo. 

Così, quando la pandemia sarà passata, saremo pronti.

Quando potremo uscire di nuovo lì fuori, saremo in grado di scoprire che le ricchezze più grandi non stanno solo nel continuo superamento di limiti ricercato dalle corse dei giovani, ma anche (e talvolta soprattutto) nei più lenti e silenziosi passi della natura e dei “saggi naturali”: passi inesorabili, inarrestabili e davvero senza limiti.


    

"Preghiamo oggi per gli anziani (...)  
Loro sono le nostre radici, la nostra storia; loro ci hanno dato la fede, la tradizione, il senso di appartenenza, una Patria. Preghiamo per loro perché il Signore gli stia vicino in questo momento."

(Omelia del Santo Padre durante la Messa del 14 Aprile 2020 a Santa Marta)
                               
 

 E, aggiungo io, stiamogli vicino anche noi.
                                                       
                                                   Nella giusta maniera!!!

Sergio M.      

                                    

mercoledì 29 aprile 2020






AD OGGI , 29 APRILE 2020, L’ITALIA CONTA 27.359 MORTI PER IL VIRUS COVID 19 .

DI QUESTI DECESSI CIRCA IL 75% VIENE GENERALMENTE INDICATO COME RIFERITO “AD ANZIANI CON PATOLOGIE PREGRESSE” .

SE MAI QUALCUNO POSSA PENSARE A QUESTA SEMPLICE FRASE CON UN SOTTILE SENSO DI SICUREZZA MI PREME RICORDARE COME QUELLI CHE SONO MORTI ERANO,  SI VECCHI  , MA LE MILLE RUGHE CHE SOLCAVANO I LORO VOLTI ALTRO NON  ERANO CHE LE RIGHE DI UN QUADERNO INFINITO SULLE QUALI ERANO SCRITTE LE LORO ESPERIENZE DI VITA CHE NOI SOPRAVVISUTI AVREMMO SEMPRE POTUTO LEGGERE ED ACQUISIRE COME REGOLE DA  IMPARARE    PER  SCRIVERE CORRETTAMENTE LA NOSTRA VITA .

ED INVECE COSÌ SONO ANDATE PERSE NELL’INFINITO .

PERCHÉ QUANDO MUORE UN VECCHIO, UNO QUALUNQUE, SPARISCE UNA BIBLIOTECA DI SAPIENZA DI MILIONI DI VOLUMI ED UNICA AL MONDO .

LA STUPIDITÀ E' L'UNICA PATOLOGIA PREGRESSA  DELL'UMANITA' CHE IL VIRUS FAREBBE BENE A PORTARCI VIA .

DUBITO CHE CI RIESCA



C.D.G.

martedì 28 aprile 2020

L'insostenibile leggerezza... della Libertà




Riflettevo, spinto da questa quarantena forzata,  su alcuni passaggi del libro di Milan Kundera “L’insostenibile leggerezza dell’essere” e specificatamente sull’intreccio di quel quartetto di vite dei personaggi principali, libere nella loro mente di vivere una complicità passionale, trascendente dalla realtà del momento in cui essa si sviluppa.

Forse il passaggio chiave del romanzo è quando il personaggio centrale Tomáš pubblica una storia di Edipo che decide di non ritrattare difronte alle pressioni del regime comunista negazionista, pagando il suo fermo atteggiamento con l’esilio in Francia, così rinunciando a quell'ideale di libertà che per lui era “l’amare in maniera irrazionale”...

Come tratti per una riflessione più intima e profonda, riporto uno stralcio di un commento al romanzo della professoressa di storia e filosofia Antonietta Pistone, in cui la docente ne ritrae l’aspetto, per me più interessante,  del pensiero di Kundera e del suo romanzo, interpretazione molto profonda  e per certi tratti, a mio modo di vedere, esoterica :


"La vita è una beffa!

La vita è una spirale: e quella spirale è la storia, il tempo, l’attimo in cui si è gettati, come sostiene Heidegger ne L’abbandono…
Ciononostante non si è mai stanchi di credere, di sperare, di lottare, di gioire, di amare e di soffrire.
Qualora si pongano obiettivi ragionevolmente possibili si lotta per la loro realizzazione, in libertà e responsabilità.
Si sceglie ancora una volta la pesantezza, la fatica, l’impegno per prodursi.
Ma anche la pesantezza è sopportabile fino ad un certo punto, e si ricade nella insostenibile leggerezza.
L’esistenza si arricchisce nel movimento, e l’uomo si carica di dubbi, incertezze, precarietà, scelte.
La libertà è sia la possibilità di scegliere, non solo tra due differenti alternative, che lo sforzo di ergersi signori e padroni della propria vita...."


Luca M.M.

venerdì 24 aprile 2020

Ragnarǫk, crepuscolo degli Dei


La cultura norrena è affascinante, poetica, ed importante. Uomini, per secoli, hanno vissuto nel volere dei loro dei, rispettandoli, pregandoli e temendoli.
Questi... sono i miei antenati.
Un giorno, anni fa, incontrai un uomo che mi fece notare quanto fossi preparato e curioso verso le culture antiche ma, con mio rammarico, mi fece anche notare la mia impreparazione verso quella che è la mia cultura d'origine.
Il mio sangue è, infatti, diviso in due fra quello della nostra amata Italia e quello danese.
Io non lo sapevo ancora, ma avrei presto abbracciato una delle culture più poetiche mai comparse su questo pianeta.
Iniziai a studiare, partendo dal nulla più totale, se non dalle parole “Odino” e “Thor”, nomi altisonanti e famosissimi; scoprirò poi la loro vera forza, fatta non solo di possenza fisica, ma anche da un intelletto fuori dall'ordinario e, per quanto riguarda il padre degli dei, da una conoscenza infinita acquisita col sacrificio di uno dei suoi occhi.

Rinunciare ad un modo di vedere, per vederne un altro.

Nelle seguenti righe, proporrò una estrema sintesi di quello che è forse il momento più tragico della mitologia Nordica, e probabilmente uno dei più famosi: il Ragnarǫk, destino dell'umanità, ponendo particolare attenzione alle figure di Loki e Heimdallr e sul loro scontro, momento cruciale dell'apocalisse nordica.
A chiunque voglia approcciarsi con questa cultura suggerisco i “Cantici di Edda”, una raccolta di 29 miti norreni, trovabile online in varie edizioni. Si tratta di una lettura classica, ritrovata secoli fa e tradotta in prosa e proprio come fu per i primi ricercatori che la trovarono, questa raccolta rappresenta il perfetto ponte verso quello che può essere un mondo (anzi, nove mondi) pieno di piacevoli sorprese.


«... Liete si apprestano a combattere le Forze del Male e già calpestano il Ponte che adduce ai Troni degli Dei; il Destino ormai sta per compiersi e Heimdallr, il santo custode, suona a gran forza il grande corno di guerra; in silenzio, Odino conversa con la testa di Mimir e da lei cerca consiglio.» 


Strofa XLVI tratta dal Canto della Vǫluspá


“I tre inverni hanno fatto il loro corso, i giganti del fuoco cavalcheranno il ponte d'arcobaleno, distruggendolo; Loki, al timone della nave costruita con le unghie dei suoi guerrieri, assieme a sua figlia Hel regina dei giganti, sta trasportando il suo esercito di dannati ad Asgard” . Così  ha inizio il Ragnarok, l'Apocalisse vichinga. La parola Ragnarǫk si divide in due prefissi, Ragna, che vuol dire “Dei” e Rǫk che significa fato, o destino.

Il destino finale vedrà affrontarsi le forze del bene e del male. Coloro che sono morti in modo valoroso e che sono stati accolti nel Valhalla dovranno affrontare l'esercito degli indegni proveniente da Hel. Gli “Asa” si ritroveranno di fronte ognuno al proprio antipode e ogni battaglia si concluderà con la morte di entrambi… un caos che, alla fine, sfocia nell'equilibrio delle forze. Odino si troverà di fronte a Fenrir, il terribile lupo dalle fauci capaci di colmare la distanza fra terra e cielo, e perirà fra esse.
Sarà suo figlio Vioar, Dio della vendetta, soprannominato anche “Dio silenzioso”, a pareggiare i conti in nome del padre. Tyr e Garmr periranno a vicenda, Thor ucciderà Miðgarðsormr, il serpente cosmico che forma un uroboro intorno al mondo, ma morirà pochi passi dopo, per colpa del suo veleno. Nello scontro finale Loki, colui che ha dato inizio a tutto si ritroverà di fronte a Heimdallr, l'ultima speranza per l'umanità. Il suo nome vuol dire infatti “mondo luminoso”. Il primo fra i due simboleggia l'ambiguità, Loki è il dio del caos, dell'astuzia, ma anche della distruzione, lui simboleggia il ponte fra le divinità e i giganti e ora, pregno di odio, ha dichiarato guerra ai suoi fratelli, primo fra tutti Odino, con cui aveva siglato un patto di sangue. Heimdallr è la sua antitesi, simboleggia l'ordine fra gli uomini, ne è il progenitore ed è anche lui rappresentante di un ponte, quello fra le divinità e gli uomini, fra la terra e il cielo, collegati assieme tramite il Bifrǫst.

Ordine e Caos si ritrovano di fronte, conoscono entrambi il loro destino, ma senza esitare si scagliano l'uno contro l'altro. Le lame dei due iniziano a intonare la macabra melodia dell'acciaio, le due divinità danzano fra le fiamme, la distruzione è ultimata, la fine è vicina: entrambi, periranno. L'unico rimasto vivo, Surtr, detto “il nero”, Gigante del fuoco, darà fuoco al mondo con la sua spada fiammeggiante. Il suo è un fuoco purificatore, purificherà i nove mondi e l'universo stesso da tutto il male commesso in quei tre anni e dalle sue ceneri rinascerà un nuovo mondo.
I superstiti sono pochi, i figli di Odino e Thor che erediteranno i loro poteri e Baldr, Dio della speranza, che tornerà da Hel assieme a sua moglie e a suo fratello.
I guerrieri che hanno combattuto fieramente nella battaglia potranno tornare a brindare e i malvagi verranno rinchiusi in gabbie fatti di serpenti.
La specie umana invece risorgerà su una nuova terra grazie all'amore di una coppia, sopravvissuta grazie ad un nascondiglio, e che ora ha il compito di ripopolare una nuova terra.
Sul terreno della nuova rinascita, invece, verrà ritrovato l'ultimo importante lascito degli Dei: le loro pedine degli scacchi.

Leonardo S.



 






martedì 21 aprile 2020

CASA mentis








Carissimi, 

in attesa di rivederci vi allego alcune riflessioni nate in seguito a uno scritto redatto su un progetto artistico focalizzato sulla casa e soprattutto sul #restareacasa.
Dall'articolo che ho pubblicato con la rivista con cui collaboro sono sorte poi alcune considerazioni sul senso di vivere la casa trasformando lo stesso concetto di abitazione in un invito al cambiamento di una forma mentis votata all'essenzialità e alla (r)esistenza.
Lo scritto che vi allego è corredato dall'immagine di una casa che ho realizzato graficamente in un concetto anche alchemico che gioca sui colori trasmutativi a noi ben noti.

Spero che, al di là della casa, si possa davvero viaggiare e andare oltre in una visione non limitata dello spazio nel quale ora siamo co_stretti ma che con forza, volontà e immaginazione possiamo allargare all'infinito.

Vi abbraccio 
Amalia 


CASA mentis: una forma di (r)esistenza 





Ogni dimora è un candelabro dove ardono in appartata fiamma le vite.
Jorge Luis Borges

La casa, mai come ora, spazio e tempo delle nostre riflessioni, dimora di (r)esistenza all’interno della quale ricreare e progettare sé stessi, agire per cambiare affinché la fiamma della vita non affievolisca ma torni ad ardere, trasformata e rinnovata.
Il ‘restare a casa’ in un senso mantrico risulta davvero uno strumento di pensiero, un pensiero che urge raccogliere e trasformare in azione essenziale e (r)esistenziale.

 In questo momento, la casa ci apre a una diversa dimensione di vita all’interno della quale la libertà,   fisicamente limitata, risulta in realtà una sfida ad agire e lavorare in un’altra direzione, forse più     autentica, sincera e umana.

Smettere di rincorrere quell’io che pensiamo di essere e iniziare a osservare tutto ciò che  non  siamo,  edificare una nuova dimora, laddove l’essere inizia a esistere nella sua vera forma.

La casa mentis è la nostra sfida presente ma anche la possibilità unica di riscoprire un differente modus operandi e vivendi.

Auto-progettare la propria casa/vita stimolando una visione più profonda verso stessi e la propria condizione di (r)esistenza. All’interno dello spazio domestico la vita passata riaffiora come un album di ricordi, ci si attacca al senso di ciò che è stato, la memoria diviene identità addomesticata, il collante di innumerevoli pezzi prima dispersi e poi poco alla volta riuniti, un’unicità di senso e significati che ci riporta a noi stessi, oltre la nube dell’oblio, a ciò che eravamo e siamo, originariamente Uno.

Ecco che tra le mura riusciamo a vedere quello spiraglio di meraviglia, la casa come momento di rinnovamento, la nostra pelle, l’involucro alchemico di un percorso verso la luce.

Ma spetta a noi decidere come agire, la volontà di farlo davvero partendo nudi dalla nostra terra, dalla tradizione e dai ricordi che, seppur ora appaiano quasi sbiaditi, restano comunque certezze alle quali ancorarsi per non rischiare di perdersi nell’intricato labirinto di un’attualità surreale che, diversamente dalla connotata leggerezza che contraddistingue il termine, sembra quasi non permetta alcuna visione di un immaginario possibile.

E allora quel ‘restare a casa’ assume il senso profondo e pieno della (r)esistenza attiva, un’esortazione a non cedere e ad auto-progettare una forma mentis rinnovata che stimoli la creatività e alimenti la fiamma interna del talento.

Trasformare il colore, la forma e la stessa sostanza della nostra casa mentis in altro, per andare ben oltre la stessa, scoprire la vera dimora di stessi attraverso la rinascita aurea e il senso meditato di una consapevolezza reale.

Ed è cosi che i muri diventano finestre al di là delle quali imparare a riconoscersi e a vedere oltre uno spazio definito, nuove e infinite possibilità di essere e (r)esistere.

Amalia D.L.

domenica 19 aprile 2020

C’era una volta… un barbone




 M.Chagall, La Crocifissione in bianco



C’era una volta un barbone,

che se ne andava in giro per uno dei quartieri bene di Roma spingendo un carrello del supermercato con dentro tutta la sua ricchezza: un paio di maglioni di lana bucati dalle tarme, un berretto senza fiocco per l’inverno, uno con visiera per l’estate, una maglia di lana pesante ormai irrigidita per non aver mai visto acqua, un mutandone emanante un odore sospetto, stracci e oggetti non identificati. Il tutto infilato a forza in un paio di buste di plastica per la spesa. Poi giornali vecchi, un’altra busta con dentro della frutta, pane e un po’ di companatico, una bottiglia di plastica con dell’acqua ormai calda. Indossava sempre la stessa camicia senza più colore, pantaloni senza forma, un paio di scarponi pesanti con lacci spaiati, e, che facesse caldo o facesse freddo, un pesante cappottone nero che aveva visto tempi migliori.
In quel quartiere, abitato da gente benestante, per alcuni quel barbone era ormai di casa e faceva folclore, per altri era un “qualcosa” da mandar via ritenuto un potenziale richiamo di altri barboni, mentre per i più era semplicemente inesistente, invisibile, trasparente.

C’erano una volta anche due amici liceali, cresciuti praticamente insieme, Jacopo e Roscio. La mamma di Roscio, persona di rara sensibilità e spirito umanitario, si era presa cura di questo barbone e fu, appunto, tramite lei che Jacopo e Roscio lo conobbero e, insieme o singolarmente, andavano a fargli visita appena potevano e mai che, tra una volta e l’altra, passassero più di due giorni.
Lo aiutavano in alcune faccende necessarie, e soprattutto gli tenevano compagnia. Sapevano che si chiamava Antonio, che aveva vissuto altri tempi forse più felici, che era stato professore di storia in un liceo, che aveva perso la moglie tanti anni prima e che aveva un figlio sposato, non si sapeva da che parte. E fu ovvio che tra i due amici corresse immediata la riflessione… “Come può un professore di storia, padre di famiglia, perdere la propria dignità sino a ridursi ad un barbone?”.
Ma non glielo chiesero mai.

Antonio abitava in una catapecchia di legno e cartone, che per entrarci bisognava star carponi e procedere tra cumuli di stracci consunti e fogli di giornali marci. Dove dormisse lo si capiva da un cuscino maleodorante buttato in un angolo. Poiché la catapecchia non aveva una porta sicura che salvaguardasse le sue cose, ecco da un lato famoso carrello da supermercato nel quale portarsi dietro tutto quello che, ad avviso di Antonio, era di valore. Poi c’erano riviste, tante riviste d’ogni genere sparse disordinatamente ed infine in un angoletto libri, tanti libri, messi l’uno sull'altro in perfetto ordine. L’unica cosa in ordine in quell'immenso disordine.  La catapecchia era posta in un campo incolto, che si stendeva lungo una delle tante strade, al limitare di uno dei tanti quartieri di cemento che sorgevano, privi servizi, favoriti da una urbanizzazione selvaggia delle periferie della città. Questa era appunto una delle tante strade che da un lato era ancora campagna e dall'altro presentava una sfilza di palazzoni nuovi di zecca, in vendita a caro prezzo. Nella catapecchia ci si stava al massimo in due, per cui, quando andavano a trovarlo i ragazzi e Antonio era in casa, casa per modo di dire, era lui ad uscire e se ne stavano a chiacchierare seduti all'aperto su dei mattoni di tufo messi lì apposta.
Una volta capitò che Jacopo vi entrasse e, visti i libri, allungò la mano per prenderne uno curioso di sapere che genere di libri Antonio leggesse. Fu un attimo e immediatamente ritrasse la mano con un gesto di ribrezzo e scappò subito fuori all'aperto. La capanna era infestata di topi.
I due amici esterrefatti rimasero a lungo a guardare senza parole il vecchio professore. Questi, che stava seduto sul suo mattone, non riuscì a nascondere la sua umiliazione e, calata la testa tra le mani, si mise a piangere.

Jacopo e Roscio già avevano parlato in famiglia di questo barbone e quel giorno dissero la loro intenzione di sostituire quella catapecchia con qualcosa di più decente. Per prima cosa cercammo insieme il proprietario del campo. Non ci volle molto a rintracciarlo, abitava da quelle parti e teneva il campo incolto ed apparentemente abbandonato, nell'attesa dei palazzinari per un’offerta più interessante di quelle fattegli fino a quel momento. Nel frattempo, gli faceva comodo la presenza di quel barbone sul suo terreno perché faceva un po’ da guardiano. Gli riferimmo dunque della situazione di degrado igienico in cui viveva quell'uomo e dell’intenzione dei due ragazzi di abbattere la catapecchia e tirar su, al suo posto, qualcosa di più decente. Con sorpresa, lui non fu contrario all'idea e pose una sola condizione: niente cemento, nessun recinto, che ci si limitasse insomma ad una piccola casetta in legno di evidente provvisorietà. Più che giusto.
L’entusiasmo dei ragazzi era alle stelle: fecero il progetto, comprarono pali, filagne di castagno, tavole, chiodi, cavicchi, antitarli, coppale, vernici, fogli di finto tetto in poliestere, fogli di catrame e di gran lena diedero avvio ai lavori. A loro si unirono altri loro amici, compagni di liceo e alcuni del loro gruppo scout e, nel giro di qualche settimana, tirarono su una capanna quasi a regola d’arte.
Poi, armati di guantoni e stivaloni, smantellarono quella vecchia e subito avviarono un’accurata disinfestazione dell’area, che interruppero solo quando il suolo tornò lindo e pulito, senza più il dubbio anche di una semplice cacchina di topo. Venne quindi il giorno in cui la nuova casetta venne spostata, ubicata e circondata da un canaletto di raccolta delle acque piovane. In quell'occasione eravamo quasi tutti commossi sino alle lacrime e anche il proprietario del terreno, presente con la scusa di volersi sincerare che la costruzione fosse decente ma di tipo provvisorio. Alla fine tra le mani dei ragazzi comparvero una bottiglia di spumante e una pila di bicchierini di carta. Diedero la bottiglia ad Antonio, il barbone, e vollero che lui, dopo averla agitata ben bene, indirizzasse il getto di schiuma proprio sulla capanna.
Era ormai sera, e fu una gran bella serata.
Da allora passò, si e no, una settimana quando Jacopo, che si stava preparando per andare a scuola, ricevette una telefonata. Lo vidi sbrigarsi e, dicendo  che era accaduta una cosa strana ad Antonio, saltò sul motorino e partì di volata, lasciando i libri a casa. Rientrò incavolato nero dopo qualche ora e ci raccontò che, alle prime luci dell’alba, quando la strada era ancora deserta e le finestre ancora serrate, qualcuno aveva dato fuoco alla baracca di Antonio. Quando era arrivato lui c’erano già i vigili del fuoco, e dopo un po’ sopraggiunse anche un’auto della polizia. Antonio non c’era e nessuno lo aveva visto. Ma il suo inseparabile carrello, con tutte le sue cose era lì, tra i resti fumanti.
La polizia convocò il padrone del terreno, sentì Jacopo e Roscio, sentì pure altre persone e, in assenza di denuncia e di elementi atti a procedere d’ufficio, ritenne chiuso il caso. L’ipotesi più accreditata rimase che ad appiccare il fuoco fossero stati alcuni degli abitanti dei palazzoni dell'altra parte della strada, temendo che quella baracca potesse essere l’inizio di una baraccopoli, con conseguente svalutazione della zona e dei loro immobili.

E Antonio? Che fosse scappato, svegliato dalle prime fiamme? Che quelli che avevano appiccato il fuoco, prima di farlo, lo avessero svegliato e indotto ad andarsene via subito e per sempre, sotto minaccia?
Cosa fosse successo non si è mai saputo.

Da allora in poi Antonio non si è mai più visto.
È una storia vera.

Gaetano C.


giovedì 16 aprile 2020






Que te vaya bien Luis!


“«Voglio deporre un uovo. Con le ultime forze che mi restano voglio deporre un uovo. Amico gatto, ti chiedo di farmi tre promesse. Mi accontenterai?»

«Ti prometto tutto quello che vuoi» (miagolò impietosito)

«Promettimi che non ti mangerai l’uovo» (stridette aprendo gli occhi)

«Prometto che non mi mangerò l’uovo» (ripeté Zorba)

«Promettimi che ne avrai cura finché non sarà nato il piccolo» (stridette sollevando il capo)

«Prometto che avrò cura dell’uovo finché non sarà nato il piccolo».

«E promettimi che gli insegnerai a volare» (stridette guardando fisso negli occhi il gatto) Allora Zorba si rese conto che quella sfortunata gabbiana non solo delirava, ma era completamente pazza.

«Prometto che gli insegnerò a volare. E ora riposa, io vado in cerca di aiuto» (miagolò Zorba balzando direttamente sul tetto).”








Siamo stati fatti per Credere ?

Vmat 2 il Gene di Dio


Per secoli, le ragioni della scienza e quelle dello spirito si sono contrapposte frontalmente, nella migliore delle ipotesi i due contendenti si sono reciprocamente ignorati. 

Ma da qualche tempo si respira un’aria nuova: la ricerca scientifica ha cambiato strategia e irrompe sempre più spesso nell’universo della spiritualità. Il suo obiettivo pare essere ambizioso: ricostruire la struttura  biologica di quell’entità generalmente conosciuta con il nome di “anima”.

Secondo le più recenti teorie scientifiche il livello di spiritualità varierebbe da individuo a individuo in rapporto alla quantità di alcune sostanze chimiche che vengono prodotte all’interno del nostro cervello: la dopamina e la serotonina.  

Sarebbero questi due mediatori ormonali  i principali responsabili del senso di unione con l’universo e di tutte quelle sensazioni che caratterizzano l’esperienza spirituale di ciascuno di noi .

         Il gene che regola la loro produzione, il “gene di Dio”, appunto, è stato battezzato Vmat2.


Secondo alcuni scienziati , stimolando in modo opportuno il nostro cervello, si può far sentire ad una persona il profumo di una rosa, anche se la rosa non c’è o fargli provare un’esperienza mistica anche se sta facendo shopping in un centro commerciale di Roma o qualunque altra cittadina o paese .


D’altronde questa visione meccanicistica dell’ esperienza spirituale è condivisa specificatamente dal genetista Francis Crick che, insieme a James Watson scoprì la struttura a doppia elica del DNA.
Egli, in una delle sue ultime interviste prima di morire, affermò di aver individuato nelle cellule neuronali (le cellule che compongono il sistema nervoso) uno schema coerente della coscienza e, quindi, dell’anima. 

Insomma, vi è una scuola di scienziati convinta che le esperienze mistiche di San Francesco,  Confucio, Buddha e Maometto sarebbero si, assolutamente reali , ma frutto tutto di una questione di ormoni e neurotrasmettitori: più il nostro cervello ne produce, più noi siamo in grado di elevare la nostra mente al di sopra delle logiche della materia bruta.

C’è da chiedersi :

Perché quando viene individuato all’interno del nostro cervello la sede di un pensiero superiore, arriva subito qualcuno a dirci di aver “smascherato” l’imbroglio, e a gridare alla vittoria della razionalità sullo spirito?

E’ probabile che ciò accada perché, da diversi secoli, la nostra cultura scientifica si fonda su di una netta scissione tra le ragioni del corpo e quelle dello spirito.

E’ la ben nota distinzione cartesiana tra

res extensa

(che  rappresenta la realtà fisica, che è estesa, limitata e inconsapevole)
 e 

res cogitans

(con cui  si intende la realtà psichica a cui Cartesio attribuisce le seguenti qualità: inestensione, libertà e consapevolezza.

Grazie, o forse sarebbe meglio dire “per colpa”, a questo dualismo, scienza e religione si sono potuti spartire, ma sempre guardandosi in “cagnesco”,  i territori di reciproca competenza.

Il corpo agli scenziati, l’anima alla religione. 
Così è stato stipulato un trattato di finta non belligeranza, che, a parte qualche scaramuccia di confine, ha apparentemente retto per secoli. 

Questo dualismo, sorte di “pax armata” ha fatto sì che la medicina potesse gestire il corpo umano secondo il cosiddetto “modello meccanico”, che lo considera alla stregua di una macchina fatta di leve e ingranaggi, pulegge e contrappesi, spinte e controspinte, in cui ad ogni causa corrisponde un effetto ( chiaramente estremizzo) .
Ma cosa avviene se, per caso, res cogitans e res extensa si incontrano?

Cosa accade se all’interno degli ingranaggi della macchina-uomo ci si imbatte in qualcosa che, manifestamente, appartiene all’“io pensante”?

Accade che allora salta la logica duale tra corpo e anima: se si dimostra che l’anima si serve di strutture che lo scienziato può osservare, isolare, misurare, vuol dire che l’anima non è più anima: è anch’essa materia. E il dogma è infranto, la “truffa” è scoperta. E’ la materia a farla da padrona. E’dunque vero che, come affermava un certo positivismo agli inizi del’900,

“le emozioni sono tutta una questione di chimica”.

Ma stanno proprio così le cose?

Non credo ; per analogia, se scoprissimo la tecnica con cui nel medioevo si producevano i mattoni avremmo forse automaticamente anche scoperto i meravigliosi ed ineffabili segreti dei costruttori di cattedrali a cui tanto ci ispiriamo ?

Forse . a chiarirci le cose, paradossalmente, potrebbero essere le più sofisticate tecnologie di cui si servono oggi le neuroscienze, come la risonanza magnetica funzionale. 

Questa tecnica che consente di vedere le aree del cervello che sono coinvolte nei vari tipi di attività mentale.

Qualche anno fa , chi si fosse trovato a passare per il Dipartimento di Neuroscienze dell’Università del Wisconsin, avrebbe assistito ad una scena a dir poco strana: avrebbe visto alcuni monaci buddisti in meditazione all’interno del tubo di un apparecchio di risonanza magnetica funzionale.
           

Nessun problema dal punto di vista morale: l’esperimento era stato autorizzato e incoraggiato nientemeno che dal Dalai Lama in persona senza che la Cina, a differenza di come sovente fa, ne facesse un caso diplomatico. 

L’ideatore dell’inconsueta indagine mi pare fosse il neuroscienzato Richard Davidson. 

Studiando i tracciati di questo particolare tipo di risonanza magnetica, Davidson notò che, durante gli esercizi mentali in cui i monaci si concentrano su sentimenti di compassione pura, le regioni del cervello deputate a discernere ciò che è proprio da ciò che è estraneo, sembravano essere , come dire ? “Addormentate” . 

Insomma sembrava proprio che, in questi esercizio  i monaci avessero abbattuto le barriere mentali che esistono fra il loro mondo e l’universo circostante, diventando un tutt’uno con il mondo che li circondava .

Più interessanti ancora erano poi le differenze tra i monaci anziani e i novizi. 

Nei primi c’era un’attivazione significativamente maggiore dei percorsi cerebrali legati all’empatia e all’amore. Maggiori erano gli anni di allenamento alla meditazione, maggiori erano le connessioni tra le regioni frontali (molto attive durante le meditazioni di compassione) e le regioni dell’emozione.

Ma probabilmente le differenze più nette emergevano nell’area della corteccia prefrontale sinistra, il sito coinvolto nei sentimenti di felicità

Mentre i monaci anziani erano intenti in esercizi di compassione, l’attività nella regione prefrontale sinistra aumentava enormemente, travolgendo l’attività della regione destra, associata invece a sentimenti negativi.
       
Questi livelli di attività non erano mai stati osservati durante il lavoro mentale di persone “normali”. 

Dunque anche il pensiero positivo è un’abilità che può essere allenata. 

Già qualche anno fa, Davidson aveva scoperto che una maggiore attività nella corteccia prefrontale sinistra rispetto a quella destra determinava un maggiore livello di serenità. 

La cosa più interessante era poi l’osservazione che, le persone allenate a far funzionare maggiormente la corteccia sinistra, tendono a tornare a quel livello di base anche dopo episodi di vita stressanti o dolorosi. In altre parole, riescono più degli altri a superare  le prove difficili della vita.

Insomma, da questi studi si conferma che il cervello funziona per certi versi esattamente come un muscolo che, allenato in modo appropriato, può rafforzare progressivamente alcune sue funzioni e persino la sua struttura anatomica.

Il cervello va quindi visto come una struttura plastica, in cui i pensieri possono modificarne le funzioni e la struttura, e non solo viceversa.

Un’altra grande lezione che ci viene da questi studi è che il pensiero emozionale, la visione spirituale del mondo possono essere portati ad un livello di consapevolezza.
Possono essere una libera scelta, frutto di un maturo libero arbitrio .

Inoltre, la parte emozionale del nostro pensiero può essere allenata e utilizzata attivamente per arricchire e migliorare il lavoro del pensiero razionale. E la nostra volontà su questo gioca un ruolo non da poco. Molto superiore a quello dei geni e degli ormoni da loro prodotti. 

E allora non è vero che siamo dominati da ormoni e neurotrasmettitori, come sostengono alcuni, ma possiamo servirci di essi per valorizzare alcune particolari attività mentali.
E se la ricerca scientifica abbatte i confini fra neurochimica e anima portando a risultati che nessuno si aspettava, la stessa drastica scissione cartesiana fra anima e corpo sembra reggere sempre meno: sempre più  si abbattono i confini tra funzioni biologiche e funzioni che sembravano assolutamente circoscritte alla mente.

          Ad esempio, è noto da molto tempo che  condizioni di stress o sentimenti negativi come  gelosia e  invidia, determinano nel nostro cervello un calo dei livelli di serotonina che, oltre ad essere, come abbiamo visto, un ormone legato ai sentimenti di spiritualità, ha la capacità più in generale di stabilizzare l’umore, favorire il sonno, il relax e la distensione e determinare sentimenti positivi, tanto da essere identificato in genere come l’ormone della serenità. 

Per di più, negli stati di stress aumentano pericolosamente i livelli di noradrenalina, Questo accade perché serotonina e noradrenalina si comportano come due bambini sull’altalena: se uno sale, l’altro scende, ma non possono mai essere tutt’e due contemporaneamente in alto. 

E’ ben noto che la noradrenalina stimola la memoria e l’attenzione, ma anche la carica energetica e l’aggressività, ed aumenta il rischio di malattie cardiovascolari. 

Ma la sua è un’azione di breve durata, a tipo “mordi e fuggi”. Nello stress cronico un altro ormone prende il posto dell’adrenalina: il cortisolo, un potente cortisone naturale che, alla lunga, può determinare molti problemi. 

I ricercatori infatti correlano livelli cronicamente elevati di cortisolo con l’insorgenza di diabete,  obesità, osteoporosi ma soprattutto immunodepressione e, ancora una volta, problemi cardiaci. 

Del resto non è necessario essere monaci buddisti per sperimentare nella vita di tutti i giorni che combattere sentimenti negativi come l’invidia aumenta i livelli degli ormoni del benessere e aiuta a prevenire il rischio cardiovascolare. 

Quindi, gelosi e invidiosi dei successi altrui: occhio al cuore e al sistema immunitario!

Ma il caro Cartesio non aveva poi tutti i torti. Nelle Passioni dell’anima, egli sosteneva che siamo diventati umani quando siamo stati capaci di controllare le nostre pulsioni animali grazie al pensiero, alla ragione e alla volontà, e questo è senz’altro vero, e  le nuove tecnologie applicate alla medicina ci consentono di vedere queste interazioni  con i nostri occhi e di scoprire che altre e più ammirevoli interazioni coinvolgono la parte emotiva del nostro cervello. 

Tuttavia Cartesio era convinto che la mente potesse controllare il corpo attraverso l’intervento di un agente non fisico. L’aver scoperto che, alla base di queste meravigliose potenzialità  esiste un’attività biologica fatta di cellule, ormoni e circuiti neuronali strutturata all’interno del nostro cervello non le rende per nulla meno affascinanti, anzi apre in questo campo nuove e promettenti prospettive.

Concludo con le parole di Papa Francesco, che in un recente e franco confronto con un noto giornalista da sempre proclamatosi ateo, testualmente afferma :

….Lei, si definisce "un non credente da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth".
Mi pare dunque sia senz'altro positivo, non solo per noi singolarmente ma anche per la società in cui viviamo, soffermarci a dialogare su di una realtà così importante come la fede, che si richiama alla predicazione e alla figura di Gesù. Penso vi siano, in particolare, circostanze che rendono oggi doveroso e prezioso questo dialogo.”…….

Amici miei , mi chiedo se la scoperta del Gene di Dio non sia forse la chiave che, dopo millenni, riesca ad aprire quella porta che riesca a mettere finalmente in comunicazione “Fede” e “Ragione” .

Forse Dio non appartiene all’una o all’altra ma è sia l’una che l’altra.


Cesare D.G.

Ogni giorno  la Chiesa celebra la S. Eucaristia ; La  offre a  Dio  in sacrificio di lode, la dona in cibo ai  fedeli, la  conser...