domenica 19 aprile 2020

C’era una volta… un barbone




 M.Chagall, La Crocifissione in bianco



C’era una volta un barbone,

che se ne andava in giro per uno dei quartieri bene di Roma spingendo un carrello del supermercato con dentro tutta la sua ricchezza: un paio di maglioni di lana bucati dalle tarme, un berretto senza fiocco per l’inverno, uno con visiera per l’estate, una maglia di lana pesante ormai irrigidita per non aver mai visto acqua, un mutandone emanante un odore sospetto, stracci e oggetti non identificati. Il tutto infilato a forza in un paio di buste di plastica per la spesa. Poi giornali vecchi, un’altra busta con dentro della frutta, pane e un po’ di companatico, una bottiglia di plastica con dell’acqua ormai calda. Indossava sempre la stessa camicia senza più colore, pantaloni senza forma, un paio di scarponi pesanti con lacci spaiati, e, che facesse caldo o facesse freddo, un pesante cappottone nero che aveva visto tempi migliori.
In quel quartiere, abitato da gente benestante, per alcuni quel barbone era ormai di casa e faceva folclore, per altri era un “qualcosa” da mandar via ritenuto un potenziale richiamo di altri barboni, mentre per i più era semplicemente inesistente, invisibile, trasparente.

C’erano una volta anche due amici liceali, cresciuti praticamente insieme, Jacopo e Roscio. La mamma di Roscio, persona di rara sensibilità e spirito umanitario, si era presa cura di questo barbone e fu, appunto, tramite lei che Jacopo e Roscio lo conobbero e, insieme o singolarmente, andavano a fargli visita appena potevano e mai che, tra una volta e l’altra, passassero più di due giorni.
Lo aiutavano in alcune faccende necessarie, e soprattutto gli tenevano compagnia. Sapevano che si chiamava Antonio, che aveva vissuto altri tempi forse più felici, che era stato professore di storia in un liceo, che aveva perso la moglie tanti anni prima e che aveva un figlio sposato, non si sapeva da che parte. E fu ovvio che tra i due amici corresse immediata la riflessione… “Come può un professore di storia, padre di famiglia, perdere la propria dignità sino a ridursi ad un barbone?”.
Ma non glielo chiesero mai.

Antonio abitava in una catapecchia di legno e cartone, che per entrarci bisognava star carponi e procedere tra cumuli di stracci consunti e fogli di giornali marci. Dove dormisse lo si capiva da un cuscino maleodorante buttato in un angolo. Poiché la catapecchia non aveva una porta sicura che salvaguardasse le sue cose, ecco da un lato famoso carrello da supermercato nel quale portarsi dietro tutto quello che, ad avviso di Antonio, era di valore. Poi c’erano riviste, tante riviste d’ogni genere sparse disordinatamente ed infine in un angoletto libri, tanti libri, messi l’uno sull'altro in perfetto ordine. L’unica cosa in ordine in quell'immenso disordine.  La catapecchia era posta in un campo incolto, che si stendeva lungo una delle tante strade, al limitare di uno dei tanti quartieri di cemento che sorgevano, privi servizi, favoriti da una urbanizzazione selvaggia delle periferie della città. Questa era appunto una delle tante strade che da un lato era ancora campagna e dall'altro presentava una sfilza di palazzoni nuovi di zecca, in vendita a caro prezzo. Nella catapecchia ci si stava al massimo in due, per cui, quando andavano a trovarlo i ragazzi e Antonio era in casa, casa per modo di dire, era lui ad uscire e se ne stavano a chiacchierare seduti all'aperto su dei mattoni di tufo messi lì apposta.
Una volta capitò che Jacopo vi entrasse e, visti i libri, allungò la mano per prenderne uno curioso di sapere che genere di libri Antonio leggesse. Fu un attimo e immediatamente ritrasse la mano con un gesto di ribrezzo e scappò subito fuori all'aperto. La capanna era infestata di topi.
I due amici esterrefatti rimasero a lungo a guardare senza parole il vecchio professore. Questi, che stava seduto sul suo mattone, non riuscì a nascondere la sua umiliazione e, calata la testa tra le mani, si mise a piangere.

Jacopo e Roscio già avevano parlato in famiglia di questo barbone e quel giorno dissero la loro intenzione di sostituire quella catapecchia con qualcosa di più decente. Per prima cosa cercammo insieme il proprietario del campo. Non ci volle molto a rintracciarlo, abitava da quelle parti e teneva il campo incolto ed apparentemente abbandonato, nell'attesa dei palazzinari per un’offerta più interessante di quelle fattegli fino a quel momento. Nel frattempo, gli faceva comodo la presenza di quel barbone sul suo terreno perché faceva un po’ da guardiano. Gli riferimmo dunque della situazione di degrado igienico in cui viveva quell'uomo e dell’intenzione dei due ragazzi di abbattere la catapecchia e tirar su, al suo posto, qualcosa di più decente. Con sorpresa, lui non fu contrario all'idea e pose una sola condizione: niente cemento, nessun recinto, che ci si limitasse insomma ad una piccola casetta in legno di evidente provvisorietà. Più che giusto.
L’entusiasmo dei ragazzi era alle stelle: fecero il progetto, comprarono pali, filagne di castagno, tavole, chiodi, cavicchi, antitarli, coppale, vernici, fogli di finto tetto in poliestere, fogli di catrame e di gran lena diedero avvio ai lavori. A loro si unirono altri loro amici, compagni di liceo e alcuni del loro gruppo scout e, nel giro di qualche settimana, tirarono su una capanna quasi a regola d’arte.
Poi, armati di guantoni e stivaloni, smantellarono quella vecchia e subito avviarono un’accurata disinfestazione dell’area, che interruppero solo quando il suolo tornò lindo e pulito, senza più il dubbio anche di una semplice cacchina di topo. Venne quindi il giorno in cui la nuova casetta venne spostata, ubicata e circondata da un canaletto di raccolta delle acque piovane. In quell'occasione eravamo quasi tutti commossi sino alle lacrime e anche il proprietario del terreno, presente con la scusa di volersi sincerare che la costruzione fosse decente ma di tipo provvisorio. Alla fine tra le mani dei ragazzi comparvero una bottiglia di spumante e una pila di bicchierini di carta. Diedero la bottiglia ad Antonio, il barbone, e vollero che lui, dopo averla agitata ben bene, indirizzasse il getto di schiuma proprio sulla capanna.
Era ormai sera, e fu una gran bella serata.
Da allora passò, si e no, una settimana quando Jacopo, che si stava preparando per andare a scuola, ricevette una telefonata. Lo vidi sbrigarsi e, dicendo  che era accaduta una cosa strana ad Antonio, saltò sul motorino e partì di volata, lasciando i libri a casa. Rientrò incavolato nero dopo qualche ora e ci raccontò che, alle prime luci dell’alba, quando la strada era ancora deserta e le finestre ancora serrate, qualcuno aveva dato fuoco alla baracca di Antonio. Quando era arrivato lui c’erano già i vigili del fuoco, e dopo un po’ sopraggiunse anche un’auto della polizia. Antonio non c’era e nessuno lo aveva visto. Ma il suo inseparabile carrello, con tutte le sue cose era lì, tra i resti fumanti.
La polizia convocò il padrone del terreno, sentì Jacopo e Roscio, sentì pure altre persone e, in assenza di denuncia e di elementi atti a procedere d’ufficio, ritenne chiuso il caso. L’ipotesi più accreditata rimase che ad appiccare il fuoco fossero stati alcuni degli abitanti dei palazzoni dell'altra parte della strada, temendo che quella baracca potesse essere l’inizio di una baraccopoli, con conseguente svalutazione della zona e dei loro immobili.

E Antonio? Che fosse scappato, svegliato dalle prime fiamme? Che quelli che avevano appiccato il fuoco, prima di farlo, lo avessero svegliato e indotto ad andarsene via subito e per sempre, sotto minaccia?
Cosa fosse successo non si è mai saputo.

Da allora in poi Antonio non si è mai più visto.
È una storia vera.

Gaetano C.


1 commento:

  1. Una carezza d’amore per Gaetano indimenticato Fratello che troppo prematuramente ci ha lasciato.

    LMM

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