GARIBALDI E MEUCCI
PARLAVANO DI SCIENZA
Pochi lo sanno. Ma Giuseppe Garibaldi ha
mostrato, a più riprese, un forte interesse per la scienza e la tecnologia. Non
solo perché ha stretto amicizia con Antonio Meucci, lo sfortunato inventore del
telefono: i due mettono su, tra il 1850 e il 1853, una fabbrica di candele a
New York. Ma anche perché l’”eroe dei due mondi” è un appassionato lettore di
scienza: nella sua biblioteca ci sono appunti e manuali di astronomia, di
matematica, di idraulica. Garibaldi crede nella scienza come fattore di progresso
culturale, sociale ed economico.
È uno dei pochi politici a crederci, tra tutti quelli che si incontrano nella storia – lunga 150 anni – dell’Italia unita. E questo, a ben vedere, è la grande anomalia della giovane storia del nostro paese. Un paese capace di produrre eccellenza scientifica (e tecnologica), ma incapace di fare della scienza e della tecnologia il motore del proprio sviluppo.
È un’anomalia vistosa, perché il paese finalmente riunito nel 1861, produce scienziati e inventori che per qualità (e, talvolta, anche per quantità), nulla hanno da invidiare a quella di altri paesi, come Germania, Francia o Inghilterra. Ma che, a differenza degli altri grandi paesi europei, in questo ultimo secolo e mezzo non “punterà” mai sui suoi scienziati e sui suoi inventori per fondare la propria economia. Sebbene loro – gli scienziati e gli inventori – non se ne staranno quasi mai abbarbicati nella loro torre d’avorio ma cercheranno in molti modi di convincere il resto del paese che non è affatto vero che la “cultura non si mangia”: anzi, al contrario, che un paese senza cultura scientifica mangia meno.
Questi sono i tre punti fondamentali – l’Italia paese di eccellenza scientifica e tecnologica; l’Italia paese che trascura la sua eccellenza scientifica e tecnologica; l’Italia paese di scienziati e anche tecnologi socialmente impegnati – su cui due storici della matematica, Angelo Guerraggio e Pietro Nastasi, hanno poggiato l’originale ricostruzione di “150 anni di storia nazionale” che ci offrono in un libro, «L’Italia degli scienziati», appena pubblicato con Bruno Mondadori (pagg. 325; euro 22,00; 2010).
È una lunga storia. Che noi non possiamo neppure pensare di riassumere. Se non ricordando alcune punte. La stagione della grande matematica a cavallo tra il XIX e il XX secolo. La stagione della grande fisica tra gli anni ’30 del XX secolo (i ragazzi di via Panisperna) riproposta nel secondo dopoguerra. L’ottima biomedicina: con tre premi Nobel (Camillo Golgi, Renato Dulbecco, Rita Levi Montalcini) e l’ottima chimica (che ha avuto in Stanislao Cannizzaro e in Giulio Natta due interpreti di valore assoluto).
Ma anche i grandi tecnologi. Dagli inventori dell’Ottocento come Antonio Meucci e del primo Novecento, come Guglielmo Marconi, agli scienziati/inventori, come Antonio Pacinotti e Galileo Ferraris; ai grandi ingegneri, come l’italo cinese Mario Tchou, padre (ahimè quanto dimenticato) del moderno personal computer.
Nessun dubbio: l’Italia in questi suoi primi 150 anni di vita unitaria è stata terra d’eccellenza scientifica. E lo è tuttora (i giovani ricercatori italiani godono di grande considerazione all’estero, malgrado certi sapientoni descrivano la nostra università come luogo di inefficienza e cialtroneria).
Ma è stata terra in cui spesso l’eccellenza scientifica si è assunta, per intero, le sue responsabilità sociali. Due nomi su tutti: il matematico Vito Volterra e il fisico Edoardo Amaldi. Entrambi hanno cercato con lucida determinazione e gran profitto di offrire al paese una scienza solida e, dunque, utile. Creando le premesse per lo sviluppo di ricerche scientifiche fondamentali di assoluta avanguardia e stimolando il paese a darsi un’”anima” scientifica.
Volterra e Amaldi non sono stati l’eccezione. E il libro di Guerraggio e Nastasi ha il grande merito di dimostralo. Senza tacere le cadute: prima fra tutti, l’accettazione passiva da parte di quasi tutti dell’arroganza fascista e l’appoggio di alcuni alla vergogna delle leggi razziali.
Eppure in questi 150 anni l’Italia non ha mai saputo riconoscere questa sua straordinaria ricchezza. Non ha mai “creduto” nella scienza per modellare se stessa e partecipare da protagonista a quella che oggi chiamiamo l’economia della conoscenza.
Mai, tranne una volta. Dopo la seconda guerra mondiale. Quando sembrava che l’Italia volesse “fare come gli altri”, dimostrando subito di poter fare addirittura “meglio degli altri”. Sono gli anni in cui gli scienziati e i tecnologi – da Edoardo Amaldi a Giulio Natta a Domenico Marotta, da Mario Tchou a Felice Ippolito a Luigi Broglio – vengono ascoltati e posti nella condizione di far nascere un’industria ad alta tecnologia. Sono gli anni in cui l’Italia è il terzo paese al mondo a inviare un satellite nello spazio, è il terzo paese al mondo a darsi una capacità nell’ambito nucleare civile autonoma, a detenere il monopolio mondiale di una nuova plastica (il polipropilene), a realizzare un computer tutto italiano e il primo computer a transistor (padre dei personal computer). Sono gli anni in cui il Premio Nobel inglese Boris Chain viene all’Istituto Superiore di Sanità perché a Roma trova un ambiente più adatto per le sue ricerche che a Londra. Sono gli anni in cui lo svizzero Daniel Bovet viene presso il medesimo istituto per le stesse ragioni e vi conduce ricerche che gli meritano il Premio Nobel.
Poi – come documentano ancora una volta Guerraggio e Nastasi – quella breve, unica, intensissima stagione finisce. All’improvviso, all’inizio degli anni ‘60: Mario Tchou muore in un incidente stradale, Domenico Marotta e Felice Ippolito finiscono sotto processo. L’Italia sceglie una via economica diversa dagli altri, un percorso di «sviluppo senza ricerca». Gli scienziati conservano la loro eccellenza e il loro impegno sociale, ma tornano a essere voci nel deserto. Inascoltati. Perché? È difficile dirlo. Sarebbe necessario indagarlo.
Perché è in quella scelta che affondano le radici delle difficoltà del presente. Non solo economiche. Ma anche sociali, culturali e, a guardar bene, politiche.
È uno dei pochi politici a crederci, tra tutti quelli che si incontrano nella storia – lunga 150 anni – dell’Italia unita. E questo, a ben vedere, è la grande anomalia della giovane storia del nostro paese. Un paese capace di produrre eccellenza scientifica (e tecnologica), ma incapace di fare della scienza e della tecnologia il motore del proprio sviluppo.
È un’anomalia vistosa, perché il paese finalmente riunito nel 1861, produce scienziati e inventori che per qualità (e, talvolta, anche per quantità), nulla hanno da invidiare a quella di altri paesi, come Germania, Francia o Inghilterra. Ma che, a differenza degli altri grandi paesi europei, in questo ultimo secolo e mezzo non “punterà” mai sui suoi scienziati e sui suoi inventori per fondare la propria economia. Sebbene loro – gli scienziati e gli inventori – non se ne staranno quasi mai abbarbicati nella loro torre d’avorio ma cercheranno in molti modi di convincere il resto del paese che non è affatto vero che la “cultura non si mangia”: anzi, al contrario, che un paese senza cultura scientifica mangia meno.
Questi sono i tre punti fondamentali – l’Italia paese di eccellenza scientifica e tecnologica; l’Italia paese che trascura la sua eccellenza scientifica e tecnologica; l’Italia paese di scienziati e anche tecnologi socialmente impegnati – su cui due storici della matematica, Angelo Guerraggio e Pietro Nastasi, hanno poggiato l’originale ricostruzione di “150 anni di storia nazionale” che ci offrono in un libro, «L’Italia degli scienziati», appena pubblicato con Bruno Mondadori (pagg. 325; euro 22,00; 2010).
È una lunga storia. Che noi non possiamo neppure pensare di riassumere. Se non ricordando alcune punte. La stagione della grande matematica a cavallo tra il XIX e il XX secolo. La stagione della grande fisica tra gli anni ’30 del XX secolo (i ragazzi di via Panisperna) riproposta nel secondo dopoguerra. L’ottima biomedicina: con tre premi Nobel (Camillo Golgi, Renato Dulbecco, Rita Levi Montalcini) e l’ottima chimica (che ha avuto in Stanislao Cannizzaro e in Giulio Natta due interpreti di valore assoluto).
Ma anche i grandi tecnologi. Dagli inventori dell’Ottocento come Antonio Meucci e del primo Novecento, come Guglielmo Marconi, agli scienziati/inventori, come Antonio Pacinotti e Galileo Ferraris; ai grandi ingegneri, come l’italo cinese Mario Tchou, padre (ahimè quanto dimenticato) del moderno personal computer.
Nessun dubbio: l’Italia in questi suoi primi 150 anni di vita unitaria è stata terra d’eccellenza scientifica. E lo è tuttora (i giovani ricercatori italiani godono di grande considerazione all’estero, malgrado certi sapientoni descrivano la nostra università come luogo di inefficienza e cialtroneria).
Ma è stata terra in cui spesso l’eccellenza scientifica si è assunta, per intero, le sue responsabilità sociali. Due nomi su tutti: il matematico Vito Volterra e il fisico Edoardo Amaldi. Entrambi hanno cercato con lucida determinazione e gran profitto di offrire al paese una scienza solida e, dunque, utile. Creando le premesse per lo sviluppo di ricerche scientifiche fondamentali di assoluta avanguardia e stimolando il paese a darsi un’”anima” scientifica.
Volterra e Amaldi non sono stati l’eccezione. E il libro di Guerraggio e Nastasi ha il grande merito di dimostralo. Senza tacere le cadute: prima fra tutti, l’accettazione passiva da parte di quasi tutti dell’arroganza fascista e l’appoggio di alcuni alla vergogna delle leggi razziali.
Eppure in questi 150 anni l’Italia non ha mai saputo riconoscere questa sua straordinaria ricchezza. Non ha mai “creduto” nella scienza per modellare se stessa e partecipare da protagonista a quella che oggi chiamiamo l’economia della conoscenza.
Mai, tranne una volta. Dopo la seconda guerra mondiale. Quando sembrava che l’Italia volesse “fare come gli altri”, dimostrando subito di poter fare addirittura “meglio degli altri”. Sono gli anni in cui gli scienziati e i tecnologi – da Edoardo Amaldi a Giulio Natta a Domenico Marotta, da Mario Tchou a Felice Ippolito a Luigi Broglio – vengono ascoltati e posti nella condizione di far nascere un’industria ad alta tecnologia. Sono gli anni in cui l’Italia è il terzo paese al mondo a inviare un satellite nello spazio, è il terzo paese al mondo a darsi una capacità nell’ambito nucleare civile autonoma, a detenere il monopolio mondiale di una nuova plastica (il polipropilene), a realizzare un computer tutto italiano e il primo computer a transistor (padre dei personal computer). Sono gli anni in cui il Premio Nobel inglese Boris Chain viene all’Istituto Superiore di Sanità perché a Roma trova un ambiente più adatto per le sue ricerche che a Londra. Sono gli anni in cui lo svizzero Daniel Bovet viene presso il medesimo istituto per le stesse ragioni e vi conduce ricerche che gli meritano il Premio Nobel.
Poi – come documentano ancora una volta Guerraggio e Nastasi – quella breve, unica, intensissima stagione finisce. All’improvviso, all’inizio degli anni ‘60: Mario Tchou muore in un incidente stradale, Domenico Marotta e Felice Ippolito finiscono sotto processo. L’Italia sceglie una via economica diversa dagli altri, un percorso di «sviluppo senza ricerca». Gli scienziati conservano la loro eccellenza e il loro impegno sociale, ma tornano a essere voci nel deserto. Inascoltati. Perché? È difficile dirlo. Sarebbe necessario indagarlo.
Perché è in quella scelta che affondano le radici delle difficoltà del presente. Non solo economiche. Ma anche sociali, culturali e, a guardar bene, politiche.
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