sabato 6 febbraio 2016

(In)Croci



Ogni volta che mi capita di incontrarvi per strada o al supermercato, di vedervi sospesi in un timido e raro raggio di sole, illusorio, che sembra allentare la morsa del quotidiano fluire richiamando a festa, voi due non passate inosservati.

Tuo padre, dritto e dal portamento elegante, regale direi, ti tiene sempre per mano, guidando con una specie di severa e ferma dolcezza, i tuoi passi incerti; come tuo padre anche tu indossi sempre gli stessi calzoni morbidi, dal cavallo basso, ottomani direi, ma hai tutte per te un paio di scarpette da ginnastica “fighe”, che vuol dire alla moda, che immagino siano quelle che qualunque ragazzo di oggi vorrebbe e dovrebbe poter indossare, che spiccano nel loro biancore. Scarpette  evidentemente calzate da piedi stranamente troppo piccoli per un ragazzo della tua statura e della tua presunta età e le cui punte si avvicinano tra di loro quando cammini a fatica, teneramente goffo. Chissà da dove venite, chissà chi siete e perché siete qui, quali sono i vostri desideri e speranze, mi chiedo ogni volta che mi capita di incontrarvi.

E quella papalina rosso fuoco, che ti ricopre giusto la punta della testa: deve piacerti molto, visto che non ti ho mai visto senza, e visto che oramai ti riconosco da quella. Deve essere la tua copertina di Linus: mi fai tornare in mente i miei figli quando, da bambini, volevano portare con sé ovunque andassero il loro giocattolo prediletto o qualunque altra cosa fosse l’oggetto essenziale per sentirsi al sicuro, e soprattutto per sentirsi sicuri di sé stessi.

Già, ma tu non sei un bambino. O per lo meno non di età anagrafica; invece il tuo sguardo e il tuo sorriso saranno eternamente fanciulleschi, eternamente stupiti sul mondo, oggi su questa terra che evidentemente non ti è madre e su questo vociare di suoni che evidentemente non sono i suoni a te familiari, tu straniero. 
Sarai eternamente fanciullo, sconosciuto senza nome ma presente, ogni volta (e saranno tante) che abbandonerai la tua mano fiduciosa nella mano di tuo padre.

Ieri è accaduto qualcosa d’altro oltre il mio osservare e immaginare.

Una giornata come tante, con il tempo che scorre e che non è mai abbastanza. 
Io, vagamente infastidita dal dover concentrare in quei pochi ultimi minuti residui del pomeriggio che cede il passo alla sera tante e non procrastinabili commissioni, vi incrocio.

Ma questa volta non siete a distanza, non siete qualche passo di lato o peggio indietro: siete lì di fronte a me quando la porta d’ingresso di un anonimo studio medico mi lascia entrare. Quasi ci scontriamo.

Tu sei sempre tu, con le tue scarpette bianche, la tua papalina rossa, i calzoni ottomani e il tuo usuale sorriso di chi è altrove.
Il mio sguardo incrocia quello di tuo padre, invece insolitamente stanco ed impercettibilmente cupo, quasi contenesse una vastità senza confini, indecifrabile, e ci soffermiamo l’uno negli occhi dell’altra un attimo più del dovuto.

In quell'attimo più del dovuto il mio cuore si è stretto, mi si è chiusa la gola e ho sentito le lacrime che salivano agli occhi, lacrime che sono riuscita a trattenere a fatica. In quell'attimo ho sentito in me la fatica, le difficoltà stratificate, le preoccupazioni e soprattutto ho sentito la forza di volere amarti e proteggerti. 
Ho sentito la solitudine, la distanza, la nostalgia. Ero io a tenerti la mano e tu eri mio figlio. Avrei voluto abbracciarvi, tenervi stretti e farvi sentire questo mio sentire; forse banalmente, avrei voluto farvi sentire di non essere soli.

Tu, padre, devi aver capito perché il tuo sorriso, accennato ma certo, quasi grato e non di circostanza, è stato più limpido del migliore dei discorsi. Incerta se dire qualcosa o tacere, sono rimasta immobile e in silenzio. 
Poi ho aperto la porta per voi e, ferma sulla soglia con una stupida maniglia in mano vi ho guardato uscire ed allontanarvi.

Non ci siamo scambiati saluti, né altri sorrisi ma solamente, io e tuo padre, un cenno di capo: il suo di cortese ringraziamento, il mio omaggio di rispettosa ammirazione, come si conviene ad un valido, ed anonimo, usciere a servizio di una famiglia reale.

Valentina



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