lunedì 26 maggio 2014

C’era una volta un ragazzo affetto dal morbo di down ; Era un Scout.

C’era una volta un ragazzo affetto dal morbo di down, in una forma non grave che gli lasciava spazi di intelligente lucidità e una contenuta autonomia ma comunque sufficiente a segnarne drammaticamente la vita.
Una domenica mattina il padre, presolo per mano, lo accompagnò verso un giovane in uniforme blu e fazzolettone al collo. Un giovane di poco più di trent’anni, che convenzionalmente, chiamerò Enzo, era sul sagrato della Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo che sovrasta l’EUR a Roma ed era appena uscito con il suo clan dalla messa domenicale dei giovani.
Di che parlo? In quegli anni Enzo era animatore di un gruppo scout, un gruppo di giovani, maschi e femmine, che vanno dai diciassette ai ventuno anni. Gli scout li conoscete tutti. Sapete dei lupetti e del branco e degli scouttini del reparto, che è la fascia adolescenziale, e certamente saprete anche che quelli della fascia ancora successiva, appunto dai sedici, diciassette ai venti, ventuno, formano il clan e sono detti rover i maschi e scolte le femminucce.  Una terminologia, direte voi, da iniziati, così come il chiamare gli animatori con il nome di Capi. 
Insomma Enzo faceva il Capo scout e stava con i suoi ragazzi, tutti belli, cresciutelli e universitari avviati, quando venne avvicinato da questo signore elegante, che portava per mano suo figlio dall’apparente età di diciassette anni, anche se è difficile, in verità, dare l’età a un ragazzo down. Gli chiese se era possibile accettare tra loro anche suo figlio e non nascose i problemi. Si affannò a tranquillizzarlo che non sarebbe mai mancata alcuna forma di assistenza e di presenza da parte sua e della moglie e che il ragazzo capiva, anche se non molto, e che era fisicamente abbastanza autonomo.
La risposta fu un si immediato. Forse troppo impulsivo. Forse, senza troppo ragionare, aveva dato ascolto alla coerenza, ai tanti discorsi di non emarginazione, di accoglienza e di solidarietà ed aiuto, nonché alla ricchezza del confronto, all’accettazione del diverso.
Fu l’adesione ai suoi principi, fu l’occasione che gli veniva offerta di testimoniare le proprie scelte e di passare dalle parole ai fatti.; fu la gratificazione di poter dire “ecco, abbiamo nel nostro gruppo un ragazzo disadattato da trattare come un pari a noi in tutto e per tutto”. Fu per questo, e forse per altro ancora, che promise il suo interessamento e che a breve gli avrebbe dato una risposta, sicuramente positiva. Si salutarono con lo scambio dei telefoni accompagnata da una forte stretta di mano.
Enzo ne parlò con la sua partner. Perché nei gruppi scout misti, insieme al capo maschio c’è anche un capo femmina alla pari. Ne parlarono con i loro giovani scout e non dovettero fare alcuna fatica se non smorzare il loro entusiasmo.
Dal mese successivo, Mario, nome convenzionale, entrò a far parte degli scout e di quel Clan. Con tanto di Promessa, fazzolettone, uniforme e fu presente a tutte le attività in sede o in città, alle escursioni all’aperto e alle notte di tenda in montagna. Dopo un po’, il suo disagio non pesò più di tanto. Era divenuto normalità che qualcuno andasse a prenderlo a casa con la propria macchina e poi lo riaccompagnasse, che lo si aiutasse spingendolo o trainandolo su per le scarpinate in montagna, che gli si alleviasse il peso dello zaino, che lo si aiutasse ad infilarsi nel sacco a pelo la notte. Con normalità tacevano pazienti quando lui, nel corso delle chiacchierate, esprimeva l’intenzione di parlare e faticava a cominciare. E nulla più avveniva con intenzionalità perché oramai tutto era divenuto normale. Era uno di loro.
Fu durante un fine settimana in montagna quando, lontani da qualunque riparo, scoppiò improvviso un temporale. 
In estate sono normali i temporali improvvisi e in montagna sono ancor più frequenti. Gli scout lo sanno e per questo, quando vanno su per i monti, si muniscono di robuste giacche a vento e di larghi mantelloni impermeabili con cui proteggono anche lo zaino che portano sulle spalle. Scarpe robuste a prova di diluvio e una canzone a squarciagola per affrontare le avversità e poi, quando si raggiunge il riparo, un buon tè bollente, calzettoni ad asciugare,  biancheria di ricambio e l’allegria resta tra il gruppo.  Anche questo aiuta a crescere.
Ma quella volta il temporale si trasformò in un vera e propria tempesta. L’acqua scrosciava giù immensa, furiosa e battente e in più s’era alzato un vento forte che rendeva difficile il passo e sbatteva e sollevava i mantelloni con cui si erano coperti. Giunsero dopo ore di faticoso cammino ad una vecchia stalla abbandonata. E anche lì, per il tetto rovinato e mezzo crollato, non furono soddisfacentemente al riparo. Erano tutti zuppi come non mai e tra loro anche Mario. Trovarono comunque il modo di asciugarsi e di cambiarsi e decisero di aspettare che smettesse quell’ira di dio prima di rimettersi in viaggio verso la meta, che comunque conveniva raggiungere. Qualcuno di noi aiutò Marco ad asciugarsi e a cambiarsi di panni.
Quando due giorni dopo rientrarono nel mondo civile, ognuno se ne tornò a casa stanco e allegro come al solito e nessuno si meravigli affatto quando si seppe che Marco si era intanto buscato un gran bel malanno per quella inconsueta inzuppata. Andarono a fargli visita e a scherzare con lui. Passerà, non è mai morto nessuno per un raffreddore per quanto forte.
E invece non fu così.
La natura di Marco era diversa e nel giro di una settimana lasciò questo mondo per tornare alla casa del Padre. Come dicono gli Scout.
Al funerale erano tutti, ma Enzo non ebbe il coraggio di presentare le sue condoglianze alla famiglia. Si sentiva in qualche modo colpevole di quanto era accaduto. Lui e la sua partner erano rimasti addossati ad una navata della parrocchia per tutto il tempo. Mentre i ragazzi invece si facevano in quattro, sebbene distrutti dal dolore, a portare la bara a spalle, a leggere lettere di saluti e a cantare canzoni di addio. Fu una cerimonia struggente che però Enzo non sentì, talmente era il suo cuore schiacciato dal macigno del rimorso.
Immaginatevi quindi la sorpresa quando, appena il giorno dopo la cerimonia funebre,  Enzo, alzato il telefono, udì la voce del padre di Marco che gli chiedeva se poteva venire a casa sua, se non fosse di disturbo, perché aveva da parlargli. Il papà di Mario era stato già altre volte a casa sua con il figlio nei tempi belli ma ora sentiva che era diverso. Soprattutto non riusciva  capire cosa ci fosse di così importante da venire lui a casa sua appena il giorno dopo il funerale. La cosa lo turbò e lo preoccupò alquanto, che chiese a Rina, sua moglie, di esser presente e di non lasciarlo solo durante l’incontro.
Era ancora nel suo studio, assorto nei suoi pensieri, quando suonò il citofono. Dopo un po’ sentì la porta aprirsi e la moglie Rina salutare ed invitare ad accomodarsi nel salone.  Aspettò un po’ prima di decidesi a raggiungerli e lo fece con fare mesto, colpevole, pronto a sottomettersi ad ogni colpa. Qui trovò che l’ospite, il papà di Mario, non era solo e che con lui era anche la moglie e la cosa lo allarmò ancor di più.
Appena entrato, i coniugi si alzarono ambedue dal divano, dove Rina li aveva fatti accomodare, e il papà di Mario gli andò incontro tendendomi la mano. Fu forse un fatto automatico che gli porse anche la sua, tanto era confuso? Era un fatto normale? Forse si, forse no. Gli pareva ricordare che normalmente ci si salutava con meno formalità, Il papà di Mario gli strinse la mano con vigore, restarono immobili così per qualche minuto a guardarsi negli occhi, o forse solo qualche secondo, e poi lo abbracciò. Lo cinse con le sue braccia stringendolo al petto.  Enzo, sempre più confuso, non capiva più niente. Sentì una parola,sentì il papà di Mario dire: Grazie.
Enzo continuava a non capire nulla. Cercò lo sguardo di Rina e trovò anche in lei imbarazzo e stupore. Però lei, da brava padrona di casa, cercò di rompere l’imbarazzo mettendosi a distribuire bicchieri e bevande. Allora l’ospite, interrotto a tratti dalla sua consorte, spiegò.
Disse che loro due sapevano benissimo che la malattia del figlio lo avrebbe portato presto a lasciare questo mondo. Se lo aspettavano rassegnati e quell’acquazzone era stato solo il mezzo che la sorte aspettava. Non c’era nulla da rimproverare. Non fosse stato allora, sarebbe stato più tardi, tra un mese, forse tra un anno ma non oltre. Seguivano con apprensione l’evolversi del male ed erano consapevoli dell’immancabile epilogo. Ora erano lì a ringraziare lui, Enzo, e con lui tutti i ragazzi scout, per aver dato al loro figlio momenti di felicità. Lo avevano fatto sentire un ragazzo normale. Quando era con loro. dimenticava il suo male e quando rientrava a casa dalle attività, siano esse in sede o fuori, era contentissimo e raccontava ogni particolare e aveva un sorriso raggiante.
Anche quella sera, mentre  tirava fuori dallo zaino i panni ancora zuppi d’acqua, raccontava dell’avventura sotto la pioggia con un entusiasmo mai provato. Con gli altri scout, che andavano a fargli visita appena ammalatosi, parlava e progettava del domani e delle tante altre cose da fare. E ne parlava ai parenti e persino al medico. Quando poi ha chiuso gli occhi per sempre lo ha fatto con il sorriso sulle labbra.

E’ un fatto vero. Quel capo scout, che ho chiamato Enzo, ero io.


Gaetano 



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